Mayo '68

Maggio del 68 (sessantotto)

 Maggio del 68 (sessantotto)

 1. L’esplosione della grande crisi culturale dell’Occidente[1]

Benedetto XVI si è riferito di recente al Maggio del 68 come a una delle grandi rotture storiche della nostra epoca: “la cesura del 68, l’inizio o l’esplosione – oserei dire – della grande crisi culturale dell’Occidente. […] così comincia, esplode la crisi della cultura occidentale, direi una rivoluzione culturale che vuole cambiare radicalmente”[2].

 “Forse possiamo riconoscere in questo momento il fallimento ultimo del razionalismo, dei miti della politica e della scienza come redentori dell’uomo” (Cfr. Spe salvi). I sessantottini videro che il “sistema” non garantiva né la felicità né la giustizia, pertanto era giusto demolirlo e tentare un’altra cosa completamente nuova.

Nel 68 ci fu un impulso buono che potremmo riscattare, un’ansia d’autenticità e un’esigenza di verità in tanti di quei giovani, ma sfortunatamente questa fu presto soffocata dagli schemi ideologici e naufragò nel puro nichilismo, nella demolizione della tradizione (cultura, famiglia, religione) e finalmente nella violenza, sia verbale che materiale.

 

  1. Il rifiuto della tradizione e la morte del padre

         Dal primo momento, nel movimento del 68 trionfa l’utopia sulla realtà. L’utopia consiste nell’affermare un bene ultimo sognato (l’immagine della felicità senza ostacoli, della libertà come assenza di vincoli) che deve imporsi al di sopra di tutto. Perciò era imprescindibile negare il dato previo, la tradizione, l’autorità, il padre. L’uomo deve poter inventare se stesso, libero da condizionamenti biologici, culturali e morali. Ognuno sarebbe così come una pagina in bianco sulla quale dovrebbe disegnare il proprio volto. Lo psichiatra Tony Anatrella nel suo libro La diferencia prohibida[3] (La differenza proibita) considera che nel 68 ha trionfato una rivoluzione adolescente e lo spiega così: “Il rifiuto dell’autorità, della trasmissione, la negazione del senso della legge, l’affermazione della soggettività in se stessa contro l’obiettività della realtà, l’indifferenziazione sessuale, la valorizzazione dell’individuo sopra l’istituzionale, l’idealismo della parola (basterebbe menzionare le cose perché queste esistano e la vita cambi), il disprezzo della filiazione e dell’eredità culturale e religiosa, la difficoltà di compromettersi nel tempo, la realtà messa al servizio dei propri desideri, una sessualità ripiegata su se stessa, la svalutazione del padre […] sono le caratteristiche dell’adolescenza”. E finisce Anatrella: “nello spazio di 40 anni tutte queste tendenze si sono imposte, hanno permeato le leggi e hanno contribuito ad organizzare la società sui fondamenti della confusione e dell’immaturità”.

 

  1. La dittatura dell’istintività

La falsa idea di libertà intesa come assenza di legami e come pura autodeterminazione dell’individuo, che non deve fare riferimento al dato previo della sua tradizione, della sua cultura e nemmeno della sua configurazione biologica, va unita nell’immaginario del 68 all’esaltazione dell’istintività. Non si tratta del giusto ricupero del ruolo del desiderio nella vita dell’uomo, nella sua educazione, nella sua maturazione, bensì dell’esaltazione della pulsione[4] dell’istante come fonte di felicità e cammino di liberazione…

 

  1. Negazione e dissoluzione della famiglia

 

L’utopia sessantottina prescriveva una liberazione radicale dalla tradizione (e non dimentichiamo che in Europa la tradizione si chiama essenzialmente cristianesimo) con una speciale focalizzazione all’ambito delle relazione affettive. Si accusava duramente la tradizione cristiana di formalismo e repressione nel campo della sessualità, e di aver cristallizzato un modello di famiglia che stabiliva l’autoritarismo e l’infelicità. Liberati dagli antichi tabù e delle norme caduche, uomini e donne si sarebbero potuti dedicare liberamente al piacere di una sessualità svincolata dall’impegno familiare e avrebbero potuto dar luogo ad un mondo di relazioni fondate sulla pura pulsione del desiderio.

         La figura del padre, l’irriducibile differenza sessuale e il legame intrinseco fra sessualità e procreazione furono le vittime principali di questo processo di demolizione. Il padre perché rappresentava il dato previo, la tradizione e l’autorità che era necessario cancellare, almeno nel suo significato e valore. La differenza sessuale perché implicava un dato antropologico al quale sottomettersi e chiedeva una reciproca accettazione, un dialogo drammatico con tutte le sue implicazioni. La relazione fra sessualità e procreazione perché quella solo poteva essere intesa come autodeterminazione piacevole, senza prospettiva di futuro, senza obblighi e senza sacrificio. La rottura della paternità, della differenza sessuale e della procreazione aprivano il cammino verso l’utopia di un’affettività liberata da qualunque legame e riferimento.

         Si trattava di una strada verso la felicità che in poco tempo si rivelò incapace di mantenere le sue dorate promesse. Il risultato fu l’egocentrismo, il narcisismo, l’instabilità affettiva e, pertanto, la violenza. […]

         Il filosofo Alain Finkielkraut, uno dei più acuti critici di quel periodo, riassume così la questione: “Si è persa, sfigurata, la figura del padre, non perché si dedichi a cambiare i pannolini, bensì perché la famiglia si è trasformata in un luogo di perpetua negoziazione, tutto si svolge in un registro puramente sentimentale, ugualitario… la famiglia ha smesso di essere un’istituzione per diventare una specie d’associazione precaria”.

 

  1. Sconfitta politica e vittoria culturale del 68

         In Francia, dove si è accesa la miccia della rivoluzione del 68, il generale De Gaulle riuscì veramente a sconfiggerla. Lo stesso è avvenuto nelle altre nazioni europee (Italia, Germania…) nelle quali aveva acquistato certa rilevanza. Parlo di una sconfitta politica (la sinistra non è riuscita a capitalizzare subito il successo fugace dell’accaduto nelle strade), ma tuttavia, l’onda culturale del movimento del 68 si è dimostrata molto più efficace e duratura nel piano etico-culturale, e ha propiziato una trasformazione d’alta quota le cui dimensione ancora oggi si possono percepire.

Potremmo dire che i figli (o nipoti) del 68 hanno conquistato progressivamente il potere intellettuale e mediatico, e in larga misura anche quello politico. Il professore Rémi Brague, storiografo della Sorbona, insiste soprattutto nel potere mediatico, quel fantastico potere di far credere che il mondo è come uno se lo immagina: “quelli del 68 hanno preso la parola come si prende La Bastiglia, con la differenza che ancora oggi occupano questa Bastiglia e non hanno alcuna intenzione di lasciarsi escludere”.

         Il professore Giulio Sapelli, dall’Università di Milano, militante nel movimento del 68, arriva alla seguente conclusione: “nel 68 si è diffuso un nichilismo di massa che ancora oggi respiriamo, basta guardare la relazione genitori-figli o il rapporto uomo-donna, fu una catastrofe dalla quale ancora non siamo usciti”.

  1. Nella Chiesa

Sembrerebbe che la Chiesa non fosse preparata a questa crisi culturale così profonda. Infatti, per esempio, a Salamanca (Spagna) c’erano 32 istituti teologici maggiori, dei quali ne rimasero solamente 2.

Anche in questo momento, sembrerebbe che non ci sia una risposta totalmente adeguata a questo problema ancora persistente. Uno dei dirigenti studenteschi del 68, il rosso Daniel Cohen-Bendit (nato il 4 aprile 1945 da genitori tedeschi d’origine ebraica) ha un seggio nel Parlamento europeo. E come lui ce ne sono tanti altri.

Dio ci conceda di saper reagire con lucidità e coraggio come coloro che sono formati alla scuola della Madonna Santissima.

[1] Utilizziamo principalmente un articolo di José Luis Restán, pubblicato in www.paginasdigital.es il 4 settembre 2008. Cfr. http://www.paginasdigital.es/v_portal/informacion/informacionver.asp?cod=315&te=19&idage=534&vap=0

[2] Incontro del Santo Padre con il clero delle Diocesi di Belluno-Feltre e Treviso (24 luglio 2007)

[3] Editoriale Encuentro, 2008.

[4] Pulsión. (Dal lat. pulsio, -ōnis) TS psic. nella psicoanalisi freudiana, costituente psichica che nasce da uno stato di stimolazione interna del corpo, diversa dall’istinto perché non rigidamente predeterminata, che induce l’organismo a un’attività avente come scopo l’eliminazione di tale stimolazione